AL DI LÀ DEL PRINCIPIO DEL PIACERE
Lo sciupafemmine ‘bello e dannato’ che ogni donna segretamente vagheggia, non emula l’ape gentile che svolazza di fiore in fiore spillandone il melato nettare che gli fa presa, ma vi coglie la rosa più amabile ai suoi occhi, suggendone l’ambito polline stilla dopo stilla fino a saziarsene.
Quindi la recide, e ancora la coglie, lì da terra dove l’ha gettata incolta; fino a che lei, stupefacentemente grata, germogli dallo scapo alla corolla per rifiorire daccapo, affinché, vibrando di vigorosa voluttà nel rifiorire al tocco dell’amato, arrendevole gli si schiuda ancora e ancora e ancora.
Tra luci e ombre, il maschio dominante percepisce veleggiare nel vento quel sapore robusto di desiderio defluire dalle sue nari e che gli stordisce la mente al pensiero di averla tra le sue braccia…
I loro corpi fremono, travolti dalla passione che li divora. I seni generosi di lei premono sul petto di lui; il turgore di lui grava risoluto e fiero sul ventre di lei. Le loro lingue, incanalate, danzano come dervisci uniti al divino.
E si sorseggiano a lungo, assaporando i turbamenti che con soave lentezza sopprimono ogni loro affanno nello schiudergli quel portale segreto che li conduce all’oblio, e all’oltrepasso dell’invalicabile soglia del tempo, per rifulgere nel lampo di un’ebbrezza stordente di gioventù.
Poi, in una notte color iracondia, la dea Invidia (sorella della Morte) discese sulla Terra per contrastare Amore (Eros), figlio di Venere che grazie al suo arco magico aveva fatto sbocciare l’amore puro tra le genti. Dopo aver visto con i propri occhi innumerevoli coppie libere e felici nell’atto di scambiarsi il loro amore così disinteressato da riuscire a generare esclusivamente Piacere, Invidia, risentita e disgustata (principalmente dal fatto che mai nessun uomo l’aveva considerata come donna, e meno di ogni altro Eros, del quale era segretamente innamorata), per punirlo, e con lui tutti gli uomini, creò il matrimonio.
E convinse il sommo Zeus a incaricare la gelosissima dea Era, sovrana dell’Olimpo, a sorvegliarne il culto e la fedeltà, in aperto disaccordo con i propositi conservatori della dea Quiete.
In seguito Amore, accompagnato dalla bellissima Psiche, continuò a scoccare i suoi dardi magici sebbene sulle donne, e su Psiche stessa, ormai irretite dai tangibili benefici che l’istituzione del matrimonio aveva portato grazie alla perfida Invidia, il suo effetto era irrimediabilmente perduto per sempre.
Psiche si fece portavoce di tutte le donne nel promuovere quel progetto innovativo e destabilizzante di Invidia, benché i motivi che la sospingevano fossero di tutt’altra natura, ma portavano a conseguire lo stesso risultato: ottenere da Amore molto di più del solo appagamento dei sensi che, fino ad allora, era più di quanto avesse osato sperare da lui.
Le donne avevano ormai riconosciuto l’opportunità di ottenere dal Piacere una nuova forma di bene stabile e multiforme; una sicurezza mai conosciuta prima che subito valutarono come un interesse notevolmente superiore al solo e labile Piacere stesso. E il vento, complice di Zefiro, soffiò per condurle su quella via. Mutatis mutandis, nessuna Metamorfosi è stata resa possibile tra Amore e Psiche dopo quel giorno; relegando alla condizione umiliante di ostaggio perenne di Psiche l’impulso più profondo del Piacere.
Si andò così radicando nella donna una più sottile e calcolatrice psicologia in una sorta di perfida Afrodite, creatrice dell’eterno femminino che, come Psiche dopo aver bevuto l’ambrosia degli dei, l’ha resa immortale.
Dipoi, l’uomo accertò come l’amore, senza più gli egoismi e le gelosie che li aveva visti felici, non era più sufficiente se non coadiuvato da lungimiranti prospettive che il matrimonio portava con sé: promesse di fedeltà, beni materiali, costante presenza per l’aiuto reciproco e la sicurezza di sostentamento, subordinando il Piacere al nuovo bene primario finalizzato alla generazione della prole.
L’uomo, ormai unico e solo prigioniero in quello stato inalterato di veglia dei sensi che i dardi di Eros (Demone della seduzione – come fu definito da Empedocle –) gli avevano stabilmente inoculato, non riusciva a capacitarsi di tutte queste nuove difficoltà all’approccio amoroso che la donna ora gli creava.
E si scoprì a conoscere la rabbia e la cattiveria che sfogò nei suoi confronti adattandosi col tempo alla menzogna amorosa, e a volte peggio, per giacere ancora con lei quando questa lo respingeva (come mai prima aveva fatto) se reputava che non avesse più i requisiti pratici che lei ora richiedeva per sé e a tutela della sua progenie.
A scompigliare ulteriormente il vecchio status quo nella vita delle coppie ora unite in matrimonio, subentrò poi la perfida Megera (una delle tre Furie, anche conosciute con il nome di Erinni) che, invidiosa anch’essa e gelosissima delle nuove unioni, tramò per creare turbamenti e gelosie alfine di favorire l’infedeltà coniugale.
Si pose così fine all’amore incondizionato che era uso nutrirsi solo di sé stesso, in nome del dio che lo aveva imposto nel suo nome e trasmesso con i suoi dardi, portatori del prelibato nettare della passione amorosa. Invidia fu quindi l’artefice di questa rivoluzione che instillò nella donna la fredda, lucida capacità di vedere al di là del principio del Piacere.
Ma il tributo da pagare in cambio di questa “vittoria di Pirro”, pur non essendo scritto, si annidava subdolo sotto le pieghe stesse del vincolo irrinunciabile che lo aveva sancito poiché, la conquista di nuove certezze sarebbe ben presto andata a discapito, soffocandolo, dell’elemento più caratterizzante e gioioso dell’amore: l’ardore della passione.
Scomparve così la libertà di amare come un tempo; quando l’amore sopravviveva a sé stesso nel donarsi libero da ogni imposizione e generando figli ai quali era destinata l’unica, amabile prospettiva di vivere il fato del figlio di Amore e Psiche: Piacere. Quando l’amore era nient’altro e indubitabilmente, Amore.